Giulio Innocenzi all’età di 16 anni è stato deportato nei campi di concentramento tedeschi. In occasione del “Giorno della memoria” ha incontrato studenti e studentesse della scuola secondaria di primo grado dell’istituto comprensivo “Egisto Paladini” di Treia per portare la sua testimonianza. La dirigente scolastica Angela Fiorillo ha portato la sua riflessione iniziale: «Il 27 gennaio ci chiede di coltivare il valore della memoria, sempre, ogni giorno dell’anno. Per questa occasione mi piace citare due libri di recente pubblicazione: “Tana libera tutti” di W. Veltroni, dove viene raccontata la storia di Sami Modiano, un bambino tornato da Auschwitz, e “La sola colpa di essere nati”, dove Gherardo Colombo intervista Liliana Segre la quale ci ricorda che “L’ etica della responsabilità è quella che ci obbliga a non restare indifferenti. Non abbiamo bisogno di eroi, ma serve tenere sempre viva la capacità di vergognarsi per il male altrui, di non voltarsi dall’altra parte, di non accettare le ingiustizie, di non assistere passivamente al bullismo, di non dire mai: non mi riguarda”». Anche il sindaco di Treia Franco Capponi è intervenuto: «A Treia abbiamo la triste storia di Villa Spada che nel 1939 divenne un campo di internamento femminile e successivamente, nel 1943, fu trasformata in un campo di prigionia per somali. Questa storia molto interessante è stata recentemente pubblicata nel libro “Partigiani d’oltre mare” di Matteo Petracci. Il mio messaggio agli alunni, per questa ricorrenza, è che tutti noi dobbiamo tenere comportamenti ed agire, mettendo al primo posto la pace, la democrazia, la tolleranza, l’accoglienza». Gli alunni e le alunne delle classi terze hanno poi intervistato Giulio Innocenzi e l’incontro ha coinvolto ed emozionato tutti. Aurora scrive: «Nonostante le tremende sofferenze subite, non serba rancore o odio per il popolo tedesco. E’ riuscito a perdonare che non significa dimenticare, perché cose del genere non si dimenticano, ma non vendicarsi con chi ti ha fatto del male, comportandoti come lui».
Perché è stato in un campo di concentramento? Quanti anni aveva?
«Avevo 16 anni e 5 mesi. Sono stato catturato nel marzo del 1944 per una triste fatalità: mio padre conosceva un noto partigiano, Pietro Capuzi, uno dei capi della Resistenza nell’alto maceratese. Tramite una “soffiata”, qualcuno ha riferito ai nazifascisti che a casa nostra c’era questo partigiano. Una notte vennero per prendere Capuzi, ma non trovandolo, alle 4 del mattino portarono via me. Mi hanno trasferito prima in una scuola di Visso, poi a Sesto Fiorentino e infine in Germania».
Dove si trovava il campo e per quanto tempo è rimasto prigioniero?
«Sono stato in parecchi campi. Il mio gruppo, costituito da circa 100 persone, ha viaggiato in un carro-bestiame per almeno 15 giorni, fino ad arrivare nel nord della Germania. Siamo stati destinati ai lavori forzati. Io sono riuscito a ritornare in Italia solo nel settembre del 1945».
Come è stato il viaggio? Sapeva dove la stavano portando?
«Il viaggio è stato terribile. Eravamo chiusi nei carri-bestiame. Durante il viaggio molte persone sono morte, alcune si sono suicidate buttandosi dal treno in corsa, altre ancora sono dimagrite fino a 17-18 kg, per la scarsità di cibo. Io ero un ragazzo robusto, con un fisico sportivo e quindi sono arrivato stremato ma in buone condizioni. Sapevo soltanto che mi stavano portando in Germania».
Cosa è successo e cosa ha provato quando è arrivato al campo di concentramento? Riusciva a mangiare? Come era vestito?
«In tutta la prigionia sono rimasto con i vestiti con i quali ero partito. All’arrivo mi hanno dato soltanto una coperta, uno zaino e una “gavetta” come quella degli alpini. Il mangiare era una tragedia immensa: un filone di pane nero di circa 1 kg doveva bastare per otto persone, quindi ci spettava una sola fetta per tutto il giorno; a colazione ricevevamo un cucchiaio di marmellata o margarina e poi nell’arco della giornata una “brodaglia” di crauti (era fortunato chi ci trovava anche mezza patata). Era un’alimentazione del tutto insufficiente, vergognosa. E’ una cosa che non si può raccontare; solo chi ha vissuto in quelle condizioni se ne può rendere conto. Io, nonostante tutto, ho sempre avuto la determinazione, il coraggio di amare la vita, di fare tutto il possibile per sopravvivere. Se sono riuscito a tornare a casa è soprattutto grazie al mio carattere e all’educazione ricevuta. I lavori che facevo consistevano nello sgombro delle macerie e nella realizzazione di fosse anticarro e trincee: dovevamo scavare 10 metri al giorno di trincea, lavorando fino a 10-11 ore con le cellule fotoelettriche. Eravamo impegnati sul fronte francese, per ostacolare l’avanzata degli alleati. Un altro compito che ci veniva assegnato era il trasporto di carbone e di cassette di munizioni nelle caserme, e tanti altri lavori “bestiali”. A causa di queste difficoltà molti miei compagni si sono lasciati morire, altri si sono suicidati. Nonostante tutto ho sempre pensato che la maggior parte della popolazione tedesca non fosse a conoscenza pienamente di questa disumanità. Io ero determinato a sopravvivere e a ritornare a casa e avevo anche la convinzione che per sopravvivere bisognava stare bene e riuscire a lavorare. Del mio gruppo siamo riusciti a tornare a casa soltanto in 15. Per poter mangiare, con molto coraggio, a volte riuscivo ad allontanarmi dal campo per andare in qualche casa vicina a chiedere un po’ di cibo. Le persone non mi hanno mai rifiutato qualcosa da mangiare. Una volta entrai in una casa e mi trovai di fronte ad un ufficiale tedesco (forse un Colonnello); la donna che mi aveva aperto si mise a piangere, l’ ufficiale non disse nulla e lei mi abbracciò e mi diede del cibo. Di fronte a tanta crudeltà ho trovato anche persone che hanno cercato, per quanto possibile, di aiutarmi. Accanto a tanto male e miseria ho incontrato anche gente buona».
A chi attribuiva la colpa di tanta disumanità? Quali erano i suoi sentimenti?
«La colpa era di Hitler e della sua pazzia. Con la sua dittatura ha ucciso milioni di persone ma ha anche distrutto la Germania. Io avevo un grosso senso di tristezza, ma non sono mai stato capace di odiare. Sono stato sempre portato a comprendere chi mi sta vicino. Durante l’ultimo periodo ero in un ospedale internazionale e ho assistito a vendette e regolamento di conti. Anche in quelle occasioni io non ho mai approvato la violenza perché mi sembrava che con tali comportamenti non ci fosse alcuna differenza tra tedeschi e truppe di liberazione. Vi devo dire che io ho perdonato i tedeschi, nonostante le atrocità subite. Perdonare non significa dimenticare. Perdonare per me significa non comportarsi male come si erano comportati i tedeschi».
All’interno del campo di concentramento quale era la lingua che parlavate e vi aiutavate?
«Nel campo di concentramento non c’era la possibilità di odiarsi, amarsi e aiutarsi. Io ero uno dei pochi coraggiosi che aveva deciso di lottare per sopravvivere. Uscivo dal campo per andare a prendere carote, patate e a volte trovavo anche del latte. Una volta in una porcilaia riempii lo zaino di “farinaccio” per i maiali. Non volevo morire di fame. Nei limiti del possibile cercavo di aiutare i miei compagni di sciagura».
Ha visto morire delle persone?
«Ho visto morire tante persone e tante ne ho tirate fuori dalle macerie. In un’occasione, durante un bombardamento, ci hanno portato ad estrarre i vivi e i morti. Vicino a noi c’ era una villetta con una pianta di prugne acerbe. La mia fame era tanta e mi sono messo a mangiare le prugne. Poco dopo ho avuto una crisi dovuta al fatto che avevo le mani insanguinate perché avevo tirato fuori dei morti e mi sono chiesto “che senso ha tornare quando non ci sono più i valori morali?” Ma sono riuscito a superare anche questo momento di sconforto».
Come ha fatto a salvarsi e a non impazzire?
«Con tanta determinazione, coraggio. Avevo in me il concetto che per non morire bisognava rischiare la vita. Non temevo la morte, ma volevo fare il possibile per non essere io la causa della mia morte. Ho rischiato la vita per non morire».
Quali emozioni e sensazioni ha provato quando è tornato a casa?
«Avendo vissuto un lungo periodo di crudeltà non riuscivo a provare emozioni. Le difficoltà subite mi avevano annullato i sentimenti. Ero meravigliato per l’affetto e l’entusiasmo dei miei genitori e di chi stava intorno a me perché ero stato dato per morto. Ufficialmente ero morto e addirittura avevano celebrato anche delle messe di suffragio».
Quale è stato il momento più brutto e il più bello della prigionia?
«I momenti brutti nella prigionia sono stati tanti. Il momento più bello è stato sicuramente il ritorno. Bello è stato anche aver avuto il coraggio di riuscire a respingere la morte. Vorrei trasmettervi questo messaggio: occorre sempre avere coraggio per trarre fuori dal male anche quel poco di bene che vi è nascosto».
Sa se c’è una lista di sopravvissuti al campo con il suo nome?
«Non mi risulta che ci sia un elenco».
Quando ha deciso di raccontare la sua esperienza?
«Sono stato sempre molto riservato. Molti anni fa uno storico scrisse un libro “L’ armistizio” e io raccontai in circa 30 pagine la mia esperienza».
L’esperienza del campo di concentramento l’ha cambiata?
«La forte esperienza vissuta mi ha anticipato la maturità e ho compreso che la vita è uno dei doni più grandi che il Signore ci ha dato. Da allora sono stato più responsabile, attivo, dinamico, impegnato. Inoltre ha accentuato una mia caratteristica personale: il grande amore per la libertà e la democrazia. Io amo la libertà come ben pochi. La libertà e la democrazia sono tutto. Vi consiglio di amare la vita, i poveri, la natura, gli animali, la pace, la libertà e la democrazia».
Link alla video registrazione di tutto l’incontro:
https://drive.google.com/file/d/1qxAHLScf1t8eifpj0QuWSsj7gak_2xLf/view