Dottore volontario in Africa torna in quinta elementare. Emanuele Gatta, chirurgo dell’Ospedale Torrette di Ancona e medico volontario in Etiopia, ha incontrato i piccoli alunni della 5D della scuola primaria “Gramsci-Matteotti” di Porto Recanati. Gli studenti, che hanno già partecipato a un corso di giornalismo con i professionisti della nostra testata, hanno deciso di intervistarlo e sono riusciti a scoprire tante cose importanti sull’Etiopia e sui loro coetanei che vivono in Africa. Gatta, fa parte dell’associazione GMAnapoli, attiva nel paese africano da tantissimi anni. «Porto aiuto almeno due volte l’anno… se mia moglie me lo permette!» dice sorridendo.
Come mai ha deciso di fare questa esperienza?
“Ho seguito le orme di mio padre; è stato lui, insieme a sua sorella, a fondare la GMAnapoli. Il mio primo viaggio è stato difficile, infatti, appena giunto, sarei voluto tornare indietro. Tuttavia, aiutare e vivere la realtà di quella popolazione, mi fa apprezzare di più tutto quello che ho. Questi bambini hanno solo la colpa di essere nati là, dove il cibo è scarso e ci sono malattie che possono essere curate semplicemente con un antibiotico, ma loro non lo hanno.
Perché si trovano in questa situazione?
Soprattutto perché ci sono tante guerre interne che durano da molti anni e che hanno fatto accrescere la povertà per la maggior parte della popolazione. Sono molti coloro che nel tempo li hanno sfruttati e lasciati in questa situazione così disagiata.
Come sono le loro case?
Le case si chiamano tucul, sono fatte di fango con il tetto in paglia. All’interno accendono il fuoco, il fumo fuoriesce dal tetto, mentre la pioggia non riesce a penetrare.
I bambini vanno a scuola?
I bambini per andare a scuola devono alzarsi all’alba, camminare per dieci chilometri, attraversando la giungla dove possono incontrare scimpanzé o pericolose iene. Al ritorno (altri dieci chilometri) si devono occupare di andare a prendere l’acqua al pozzo, anch’esso abbastanza distante.
Le è capitato di avere in ospedale persone che sono state ferite da animali?
Sì, soprattutto persone con profonde ferite provocate dalle iene.
Quante lingue parlano in Etiopia?
Parlano tre lingue, la più importante è l’inglese.
Sapete perché questi bambini sono così stretti tra di loro? Il dottor Gatta domanda agli alunni attenti e incuriositi dal racconto.
In Etiopia c’è talmente tanta povertà, che gli ospedali non possono permettersi una boccetta di collirio da soli due euro, sufficiente per evitare la cecità a 25/30 neonati. In questa foto i bambini si abbracciano perché non riescono a vedere chiaramente e così si aiutano a vicenda. Questi sono bambini ciechi che giocano a pallone; la palla, portata da un medico volontario, ha un sonaglio all’interno, quindi loro seguono il rumore che fa quando essa rotola.
Quanto dura la vita media in Etiopia? Purtroppo c’è molta mortalità infantile e ci sono talmente tante malattie che la vita media è di 36 anni.
Che giochi fanno i bambini?
I bambini giocano con quello che hanno: terra, sassi, legnetti, … Lui da grande vorrebbe fare l’ingegnere – dice il dottor Gatta indicando una foto – ha costruito tutto da solo il piccolo aereo di legno; le eliche non giravano bene, si staccavano continuamente ed io lo ho aiutato a sistemarle.
Di che religione sono?
Ci sono persone cattoliche e musulmane, convivono insieme rispettandosi e si trovano anche a pregare nello stesso luogo. La messa dura ben tre ore, ma non c’è la predica come da noi, ognuno sia bambino che adulto esprime liberamente il suo pensiero, la sua preghiera di fronte agli altri che ascoltano – mostra altre foto da lui stesso scattate – Se osservate i visi di questi bambini scalzi e poco vestiti, nonostante le basse temperature, potete vedere che sono sempre sorridenti. Tutti, nonostante la sofferenza, hanno il sorriso stampato in viso.
La classe, profondamente toccata da questa dura realtà, ha deciso di fare una piccola raccolta di denaro da offrire all’associazione per l’acquisto di quaderni e penne. Gli alunni ringraziano naturalmente il dottor Gatta per aver accettato di essere intervistato e per aver condiviso un’esperienza così forte.