di Francesca Urbani
Ogni cosa ha un suo ritmo, un battito, si potrebbe dire, e ne siamo tutti più o meno consapevoli nell’avvicendarsi del nostro quotidiano. Qualcuno se ne accorge prima, fuori da questa retorica, e riesce anche a trasformarlo in ritmo e questa passione diventa un lavoro di ricerca, di performances e di viaggi: così è per Francesco Savoretti percussionista recanatese che usa i suoi strumenti anche per arrivare al cuore di bambini e bambine con cui svolge l’attività di musicoterapia.
Come è iniziata questa passione?
«A casa mio padre suonava la batteria e mi ricordo che da piccolino avevo anche un mio bisnonno che suonava il tamburello quindi, un inizio legato molto alla tradizione alle feste rituali della Pasquella o del Canta Maggio (feste della tradizione contadina: canti di questua in cui i cantori con strumenti musicali richiedevano cibo e vino augurando buona sorte per l’anno venturo e fertilità n.d.r. ). Mi ricordo queste persone che arrivavano in casa con l’organetto e con altri strumenti e lui, era già anziano, suonava con loro il tamburello: ce l’ho ancora. Eppoi, mio padre che suonava la batteria, anche se in realtà quando io sono nato lui già aveva un po’ smesso. Non so probabilmente l’influenza di queste due figure, insieme anche ai primi gruppi che ascolti quando sei piccolo. E ancora Mauro Viale ( l’insegnante di batteria n.d.r.) il vicino di casa e, quindi, ho iniziato da lui prendevo la bicicletta e andavo a lezione avrò avuto 9 o 10 anni. Da lì è cominciata questa passione prima verso la batteria, che ho continuato a studiare, sempre affiancata però, a questa attenzione verso le percussioni. Quando sono stato a Roma a studiare all’università della musica, ho cominciato, parallelamente, ad andare da insegnanti privati per quanto riguardava le percussioni e ho fatto sia un percorso più sulla musica latin in ambito percussivo che sul Mediterraneo perché sentivo questa esigenza di suonare proprio dei tamburi a cornice che sono diventati gli strumenti su cui studio di più, lavoro di più, approfondisco di più».
Che usa poi anche coi bambini…
«Sì, molto. Le percussioni hanno un fascino secondo me è legato alla ancestralità dello strumento che insieme alla voce sono gli strumenti fondamentali, quelli iniziali proprio. Questo legame diretto tra uno strumento molto naturale anche a livello di percezione, di tatto, di contatto e, se vuoi, l’immediatezza. Basta un gesto per aver già un suono anche se non è poi magari quello esatto, ma non importa: attiva la comunicazione. Nei bambini attiva la relazione la condivisione e, spesso, viene usato in musicoterapia. Avendo fatto un percorso anche in quell’ambito ho visto anche che la percussione può essere uno strumento di comunicazione perché non serve un’alfabetizzazione così forte per poter emettere suoni».
Poi ha cominciato a Recanati i primi concerti, ma quand’è che si è emozionato di più?
«Quando ho suonato al Montreal Jazz Festival in Canada, è un po’ un simbolo come festival in ambito jazzistico quindi lì, le gambe “scricchiolavano”».
Con chi suonava?
Con il Luca Ciarla quartet. Un quartetto con un violinista con cui ho fatto più di 40 paesi e a settembre faremo il tour a Bangkok, Cina, Corea del sud e Cambogia un mese e mezzo quasi di tournée. Bello, sono stato già altre due volte a Bangkok, è caotica, ma tanto bella. Senti proprio una bella energia anche a livello artistico. Tutta l’Asia in questo momento è molto in movimento, Jakarta, Singapore, Honk kong ci sono bei festival, belle realtà».
Il primo concerto se lo ricorda?
«Come no? Il mio primo concerto è stato alle superiori, il terzo o in secondo superiore con un gruppo che si chiamava i ” D’ acqua fuor pesce” quindi le prime volte in cui capisci che suonando insieme puoi creare qualcosa. Quella è la bella scoperta, è la funzionalità della musica che, secondo me, è molto sociale, relazionale. Quando sei sul palco, sei con altri e ti relazioni con loro, in continuità, e si percepisce quando questo non c’è, succede a tutti, anche ai più grandi è legato anche al momento, al feeling che hai con la persona. Sul palco porti un po’ tutto, una volta sei più rabbioso, suoni con dinamiche diverse, magari è un momento della vita particolare per cui, puoi portarti su tante inquietudini, capita anche di piangere certe melodie ti attraversano. La cosa bella è che lì, sul palco, sei nudo emotivamente perché, forse è quella la bellezza, perché ti metti completamente in gioco e ti lasci andare: è molto bello e questo succede coi bimbi, lo stesso divertimento, secondo me, riesci ad arrivare a loro con le stesse dinamiche che succedono in un palco in cui stai bene perché c’è la stessa lunghezza d’onda e questa energia gira. Siccome i bambini hanno meno sovrastrutture è molto più semplice relazionarsi, se tu ti metti a nudo e inizi a giocare con loro e, è come quando stai sul palco e suoni improvvisando, stai giocando. Se inizio a giocare vedo che loro, chiaramente, arrivano. Non c’è bisogno di usare nozioni all’inizio e l’impatto è naturale».
Se un ragazzino volesse iniziare un percorso di musica, o di percussioni cosa consiglierebbe
«Un’esperienza buona è quella collettiva, con altri coetanei, altri bimbi e iniziare con dei laboratori magari vedere come si trovano con lo strumento, con la curiosità, farli provare e vedere qual è la loro reazione. Ricordano questa esperienza? Sentono questa cosa? Chiedersi se sentono il bisogno di tornare, se si sono divertiti o meno, un cosa molto spontanea. Un percorso già strutturato magari andrebbe fatto sempre in relazione al divertimento, sempre, e devono anche capire che la tecnica e lo studio sono funzionali. Più studio, più conosco e più posso esprimermi, mai il contrario sennò poi finisce tutto».
Appuntamenti importanti?
«Ad Anversa e Strasburgo con un progetto internazionale. Sarà un po’ un simposio tra artisti che provengono da diverse aree, ci sarà una cantante che viene da Israele, un’ altra palestinese e dei musicisti greci , tutti quindi dell’area mediterranea. Sono nel mio, più vado avanti e più chiaramente i progetti in cui mi ritrovo e, in cui mi chiamano, sono sempre più legati a contesti di world music con contaminazioni con altri linguaggi tipo jazz, magari dove ho studiato e ancora sto ancora approfondendo. Là ci troveremo per tre giorni di prove, eppoi due giorni di concerti, e il canovaccio saranno della cantigas di santa maria, ( canzoni monofoniche spagnole del XIII secolo in onore della Vergine Maria e dei suoi miracoli) di cui sono stati ritrovati alcuni frammenti e l’operazione sarà di andare a reinterpretare e capire come queste cantigas magari potevano essere suonate e comunicate. Sarà un percorso di ricostruzione, sulla base di questo canovaccio, un lavoro di ricerca».
E di questo lavoro sulle musiche dell’area mediterranea porta poi qualcosa nelle scuole ?
«Ah sì, beh, certo io porto gli strumenti, le ritmiche ed in genere porto e provo sempre ad inserire gli strumenti che tanto sono quelli miei, e quelli che sento più vicini, eppoi le ritmiche anche perché ho visto che c’è una bella facilità nei piccoli nell’usare un tipo di linguaggio, un solfeggio cantato molto diretto, non scritto, ma parlato, molto onomatopeico. Legato, cioè, al suono dello strumento che viene usato nelle tradizioni per tramandare le ritmiche da generazione in generazione. Sono dei suoni appunto : “dum”, “tac”, “ca” o anche, per facilitarli magari si cambiano, ma la logica rimane sempre quella lì, la stessa».
Qualcosa che non ha ancora realizzato, sogni nel cassetto?
«Sto aspettando una risposta per quanto riguarda un progetto nuovo con un fisarmonicista campano con cui abbiamo registrato adesso a maggio un disco, un nuovo quartetto. Ci sono diverse case discografiche interessate, alcune molto importanti e spero, appunto, che vada in porto.. poi i sogni .. continuare anche a studiare, così, sempre in ricerca. La ricerca è una delle condizioni che mi spinge ancora a fare la stessa cosa se venisse meno ..non so la ripetitività un po’ appesantisce qualche volta, può capitare lo stesso repertorio e magari ci si ferma. Spero che continui questa voglia di cercare».