di Gabriele Censi
Una storia di amicizia e di valori, fino all’ultimo respiro: Livio Cicalè e Giuseppe Biagetti, eroi maceratesi. Erano coetanei, nati nel gennaio del 1925 e si conoscevano dall’infanzia. Entrambi provenienti da famiglie disagiate, avevano coltivato il loro rapporto all’interno dell’Orfanotrofio di corso Cairoli, a Macerata.
L’8 settembre del 1943, giorno dell’armistizio, Livio era un allievo della Guardia di Finanza, mentre Giuseppe doveva presentarsi per il servizio militare. Decisero di non rispondere alla chiamata alle armi della neonata Repubblica di Salò e confluirono prima in un gruppo partigiano della zona di Montenero di Cingoli, poi, il 6 febbraio 1944, nel “201 Volante” del tenente Acciaio. Una storia di fratellanza che li ha accompagnati fino alla loro morte, avvenuta il 17 aprile del 1944 nel campo di concentramento di Sforzacosta, dopo essere stati catturati durante un’operazione del gruppo.
Era il 15 aprile. Quel giorno l’obiettivo era ambizioso e pericoloso: mettere le mani su Ferrazzani, personaggio di spicco dei repubblichini maceratesi. Si era saputo che il capo dei fascisti quel giorno era a Tolentino e sarebbe dovuto rientrare a Macerata in mattinata. Sulla strada del ritorno, i partigiani del tenente siciliano Emanuele Lena, Acciaio, gli avrebbero teso un’imboscata.
L’allora diciassettenne tolentinate Rolando Venanzetti, partecipe al fatto, cosi ricordava: «Acciaio voleva far prigioniero il federale con un’imboscata. Le possibili strade del ritorno erano tre: la nazionale 77, la provinciale per Pollenza e quella comunale per l’Abbadia di Fiastra, al di là del fiume Chienti. Pertanto, furono costituiti tre gruppi: uno sotto la guida di Toto Claudi, sulla strada per Pollenza in zona Casone, l’altro sulla nazionale, all’altezza del villino Benedetti (zona Cisterna, nei pressi dell’attuale stabilimento Gabrielli) sotto il comando di Acciaio, e il terzo, infine, sulla strada per l’Abbadia di Fiastra agli ordini di Pacifico Nembi (Paci de Piccini). Io mi trovavo nel gruppo “Acciaio”, con Biagiotti e Cicalò».
L’agguato, ben studiato sulla carta, per fattori imprevisti e imprevedibili, si trasformò, invece, in una vera e propria trappola per il gruppo “Acciaio”. L’allarme lanciato da alcuni fascisti, sfuggiti ad un posto di blocco sulla strada per Pollenza, fece confluire sul vicino gruppo “201 volante” di Acciaio un nugolo di militi fascisti con una potenza di fuoco schiacciante. Enzo D’Innocenzo, del Cln di Tolentino, nel raccontare l’episodio ricordava che il tenente Acciaio nella circostanza non si perse d’animo, tanto da aggirare da solo, con una manovra spericolata, i numerosi militi, per poi attaccarli alle spalle. La disperata sortita permise al suo gruppo di sganciarsi, facendogli guadagnare la salvezza sulla opposta riva del Chienti. Nell’intensa sparatoria, Giuseppe Biagiotti rimase ferito ad una gamba. Il suo amico Cicalè, rendendosi conto che abbandonarlo avrebbe significato consegnarlo agli inseguitori fascisti, non esitò a caricarselo in spalla. Nella fase concitata del ripiegamento, il fardello fu di pregiudizio ai due amici, che non riuscirono a guadare il fiume e caddero entrambi prigionieri dei repubblichini. Trasferiti in un primo momento alla caserma dei carabinieri di Tolentino, furono poi trasferiti alla caserma Corridoni di Macerata.
Furono torturati (infilarono un coltello arroventato nella ferita di Giuseppe) e condannati a morte. Livio chiese di morire abbracciato all’amico. La richiesta non fu accettata dal comandante del plotone d’esecuzione, che ordinò ai due di scavarsi da soli la fossa. Poi gli spari: erano le 10 di lunedì 17 aprile 1944. Avevano da poco compiuto 19 anni. Per il bizzarro gioco delle parti, la figura di Livio Cicalè, allievo guardia di finanza, sembrerebbe sovrastare quella di Giuseppe Biagiotti, proiettandola, casualmente in un immeritato cono d’ombra. Ma Biagiotti e Cicalè sono due facce d’una medesima preziosa medaglia. A parti invertite, il Biagiotti non avrebbe esitato un attimo a correre in aiuto dell’amico Livio in difficoltà.