di Eleonora Rampichini*
Macerata, 30 giugno 1917. E’ in corso la Prima Guerra Mondiale e il 122° Reggimento Fanteria “Macerata” combatte sul fronte orientale del confine italiano.
Seduto allo scrittoio dell’ufficio comunale, il Direttore didattico delle scuole civiche è assorto nella rilettura delle centoquaratuno righe della lunga lettera. La firma con il suo nome, Felice Bianchini, e dopo aver appoggiato la penna stilografica, piega i tre fogli in una busta indirizzata all’Onorevole Signor Assessore delegato alla Pubblica Istruzione. Era consapevole del fatto che il momento storico non fosse il più propizio per il sorgere di nuovi istituti che avrebbero gravato sulle finanze del Comune, tuttavia credeva che si dovesse pensare ugualmente al domani.
Chiude gli occhi. Ferma il respiro. Li vedeva, uno ad uno: gracili o gracilissimi, anemici, linfatici, apatici, predisposti alla tubercolosi, denutriti, magrolini e minuti, rachitici, affaticati o sfiaccati o, ancora, sofferenti. Erano alcuni dei bambini e bambine che incontrava durante le sue frequenti visite scolastiche. A vederli gli si stringeva il cuore e desiderò per loro una scuola più bella, più amabile e all’aperto. Osò sognare ed ebbe l’ardire di domandare che venisse istituita in città una prima scuola all’aperto. Impiegò sei anni per realizzarla.
All’inizio la immaginò sorgere nei dintorni di Macerata, in un modesto locale esposto a mezzogiorno. Gli sembrava di vederla già! Ma ecco che il sogno si trasformava e diventava più audace. Sarebbe stata una scuola a tempo pieno, certo! In cui i bambini avrebbero potuto trascorrere all’aperto otto ore nella stagione invernale e dieci in quella estiva…come certe scuole all’aperto delle grandi città, come la scuola “Fortuzzi” di Bologna! Non voleva, no, una scuola ambulante di cui aveva sentito dire, che trasportava all’aperto le singole classi per il tempo di una lezione e solo in alcuni periodi dell’anno.
Le esercitazioni puramente scolastiche, poi, non avrebbero dovuto superare le tre ore giornaliere. E in ogni caso – in questo era deciso – dovevano essere fatte sempre, o quasi, all’aria libera. Bisognava pensare anche agli aspetti più pratici: alle sedie e ai banchi per fuori, ad esempio. Non sarebbe stato difficile! Si era fatto inviare per posta il catalogo degli arredi scolastici della Paravia. Li avrebbe scelti di leggerissimi, articolati e di facile maneggio, tali da potersi prontamente trasportare da un punto all’altro, secondo le stagioni, il tempo, le esigenze didattiche delle lezioni da impartire agli stessi scolari.
In una scuola all’aperto che aveva conosciuto, il tempo fissato per il sonno era di un’ora e mezza al giorno. Nella stagione calda, finita la ricreazione, gli scolari lasciavano il locale insieme alla loro maestra e si stendevano sull’erba, all’ombra di qualche albero, od anche in pieno sole se il sole non riusciva molesto, una soffice copertina di lana e vi si ponevano tranquilli e felici a giacere.
Quando il tempo non lo permetteva, trasportavano sotto una capanna le comodissime sedie a sdraio, regolavano la posizione, si accomodavano a guisa di materasso la coperta, mettevano a posto il guancialino e ben presto il sonno poteva su tutti più che non il giuoco.
Così per sommi capi, è facile concludere come per l’istituzione di una siffatta scuola sarebbe stata necessaria una notevole spesa da parte del Comune. Tuttavia con l’ottimismo della speranza che lo muoveva dal futuro al presente, il direttore didattico potè confidare nel sostegno dello Stato, del locale Patronato Scolastico e dei benefattori.
Poco più di cento anni fa, un direttore delle scuole civiche scriveva che «all’aria aperta si dovrebbe studiare, leggere, giocare, saltare, cantare, lavorare, riposare, dormire» narrando una scuola che ancora non c’era con parole nuove e infinite, che si sono elevate al di sopra del suo tempo e che troviamo oggi tra i bambini fermi sui banchi, al chiuso delle aule, e nelle inquietudini degli insegnanti. Il fatto è che il nostro tempo – prendo liberamente in prestito parole non mie – ha un tremendo bisogno di dire qualcosa più grande di noi, qualcosa che ancora non c’è e che è capace di generare un presente migliore del nostro. Allo stesso modo la generazione di allora è stata capace di non lasciarsi schiacciare da quello che aveva già, ma ha trovato le energie del cuore e della mente per immaginare una scuola nuova per i suoi figli. Le notti diventano infinite quando ci convinciamo che non c’è più nulla da domandare, la speranza se ne va quando smettiamo di progettare il futuro… ma la storia della Scuola dei Giardini ha custodito per noi la possibilità di una scuola più bella, amabile e all’aperto. Nessuno può realizzarla al nostro posto.
*Eleonora Rampichini, architetto, Ph.D. in Human Sciences-Education, Ricercatrice indipendente e libera professionista impegnata nella valorizzazione della cultura dei bambini
Scuola all’aperto dei Giardini Pubblici, inizio delle lezioni il 1 ottobre 1923